L’educazione sentimentale, fra realtà e sogni. L’abbazia di Northanger, di Jane Austen



Quando si desidera essere amati, si dovrebbe mostrarsi sempre ignoranti. Mostrarsi bene informati rivela una incapacità di tener conto della vanità degli altri: il che una persona sensibile dovrebbe sempre cercare di evitare. Una donna, in specie, se ha la disgrazia di possedere qualche conoscenza, dovrebbe nasconderla come meglio può.


Perché leggere L’Abbazia di Northanger?

Indiscutibilmente, i romanzi di Jane Austen incontrano il favore del pubblico perché presentano storie d’amore a lieto a fine. E chi non vorrebbe che, almeno nel cantuccio fantastico della letteratura, diversamente da come spesso accade nella vita, tutto si concludesse bene e ogni cosa si accomodasse esattamente secondo le proprie speranze?

L’Abbazia di Northanger, da questo punto di vista, non è un’eccezione e merita di essere letto perché, come anche in altri suoi romanzi, Jane Austen offre al lettore una bella storia di amore e di amicizia, anzi una di quelle storie in cui amore e amicizia

 si intrecciano in un groviglio così fitto per cui uno dipende indissolubilmente dall'altra.

È, infatti, attraverso la conoscenza e la frequentazione con le due coppie di fratelli Thorpe, John e Isabella, e Tilney, Henry e Eleanor, che Catherine, la giovane protagonista, viene introdotta nel complesso e contraddittorio mondo dei sentimenti e guidata a comprendere cosa realmente conta per lei e cosa realmente vuole per sé nella vita.

Jane Austen scrive, è noto, con un’eccezionale agilità: la storia è ben imbastita, i personaggi delineati con nitidezza, i dialoghi condotti con brio. Ma la leggerezza della narrazione non nasconde il racconto di un’autentica educazione sentimentale, nel corso della quale Catherine affronterà tutte le tappe di speranza, timore, delusione, gioia che in giovinezza sanno produrre le attenzioni di un innamorato, le piccole incomprensioni quotidiane, la falsità di un’amicizia, la consapevolezza di amare e sapersi riamati.

Catherine Morland si distingue da altre eroine uscite dalla penna di Jane Austen per la sua fervida immaginazione: avida lettrice dei romanzi gotici di Ann Radcliffe, legge la tenebrosa storia di Udolpho con un misto di morbosa curiosità e orrore e, come una moderna Don Chisciotte in gonnella, scambia la propria fantasia per la realtà, credendo che l’imponente palazzo di Northanger Abbey sia un luogo di misteri e delitti.

L’Abbazia di Northanger diviene così l’occasione per riflettere giocosamente sul rapporto tra realtà e fantasia, sulla letteratura, sul romanzo e sul leggere i romanzi.

Decisero di fare il giro di Beechen Cliff, quella nobile collina, il cui bel verde e i boschi che la ricoprono fanno così colpo da quasi ogni angolo di Bath. "Non posso guardarla", disse Catherine, mentre camminavano lungo il fiume, "senza pensare al sud della Francia." "Siete stata all'estero, allora?" disse Henry, un po' sorpreso. "Oh! no, mi riferisco solo a quello che ne ho letto. Mi fa sempre venire in mente il luogo che Emily e il padre attraversano, nei «Misteri di Udolpho». Ma credo proprio che voi non leggiate romanzi." "Perché no?" "Perché non sono abbastanza intelligenti per voi... gli uomini leggono libri migliori."

Insomma, i romanzi sono solo una lettura per signorine? E riempiono la testa delle giovani lettrici di idee bislacche? Alla fine del Settecento, quando Jane Austen completava la prima stesura dell’Abbazia di Northanger il romanzo veniva considerato ancora (nonostante la pubblicazione, non troppi anni prima, del best-seller di Goethe, I dolori del giovane Werther) come un genere ai margini dell’autentica letteratura e, in ogni caso, esclusivamente destinato a un pubblico femminile. In particolare, veniva considerato come destinato alla sezione più fatua di questo pubblico e, comunque, accettato non senza riserve riguardo alla presunta pericolosità di letture di questo tipo.

Ma, sentenzia Henry Tilney nel romanzo:

Una persona, sia essa uomo o donna, che non trae piacere da un buon romanzo non può che essere intollerabilmente stupida

Un buon romanzo non fa male a nessuno, sembra suggerire Jane Austen, condividendo l’opinione del suo personaggio: è solo un modo per rispecchiare se stessi, i propri sogni e le proprie emozioni e per capire qualcosa di più sul confine fra la realtà delle cose e la percezione che ne abbiamo.

L’educazione sentimentale, in definitiva, passa anche attraverso il confronto con le proprie fantasie.

E solo così, forse, saremo pronti per un lieto fine. 


Di cosa tratta? 

La vicenda è presto detta: l'ingenua diciassettenne Catherine Morland riceve dagli anziani vicini di casa, i coniugi Allen, l'invito a trascorrere con loro una vacanza estiva a Bath.

Per Catherine, il soggiorno nella località termale, tanto alla moda all'epoca e tanto cara a Jane Austen, diviene l'occasione, come può accadere durante una vacanza, per stringere nuove amicizie e per incontrare l'uomo che la farà innamorare. Il lieto fine è obbligatorio, ma ciò, però, non prima che la protagonista sia andata incontro a varie peripezie, scaturite in buona parte dalla sua inesperienza, nonché dalla fervida fantasia a cui Catherine presta decisamente troppa attenzione e affidamento.

Da questo punto di vista il romanzo, nel suo schema base, non esce dal tracciato di altre opere della Austen: è una sorta di romanzo di formazione, in cui la protagonista passa da una situazione di immaturità affettiva e sociale a una maturità sancita dal lieto fine, attraverso una serie di prove essenzialmente psicologiche.

Sul percorso di formazione di Catherine gli errori non mancano, ma, proprio quando la catastrofe sembra compiuta, le sue qualità morali e intellettuali portano i frutti che tutti ci aspettavamo, nonché l'instaurazione di un nuovo equilibrio, diverso da quello iniziale e in qualche modo da noi tutti sentito come giusto.

Nel romanzo, Catherine, che si trova precipitata dalla piccola tenuta di campagna in cui vive alla tentacolare cittadina di Bath e alla sua frenetica vita sociale, fatica a capire quali comportamenti siano attesi da una ragazza della sua età: dovrà imparare, ad esempio, come ci si veste in ogni occasione, a quali attività sia conveniente dedicare il suo tempo, come atteggiarsi nelle sale della Pump Room delle terme in modo da non suscitare critiche, se sia opportuno o meno per una  fanciulla passeggiare in carrozza con un giovanotto.


La seconda sezione del libro è dominata da Northanger Abbey, tale è il nome del labirintico palazzo della famiglia Tilney, in cui Catherine viene invitata a trascorrere qualche settimana. La maestosità e l'austerità della dimora, la severità del padre di Henry, il generale Tilney, il ricordo della morte di Mrs. Tilney, scomparsa anni prima in circostanze non del tutto chiare, l'intricato intreccio di questi fattori, tutto ciò eccita l'immaginazione della giovane Catherine che si trova a fantasticare sulla possibilità che l'Abbazia di Northanger nasconda qualche avvenimento delittuoso. 

Jane Austen segue le vicende della sua protagonista con il wit che le è proprio.

Catherine ci viene presentata, sin dalle prime righe del romanzo, come una eroina per caso, o forse come una eroina che non ha la stoffa di essere tale, o forse come una eroina che eroina non è.

Nessuno che avesse conosciuto Catherine Morland nella sua infanzia avrebbe mai immaginato che fosse nata per essere un'eroina. La sua condizione sociale, il carattere del padre e della madre, il suo aspetto e la sua indole, era tutto ugualmente contro di lei. […] Aveva una figura esile e goffa, una pelle giallastra e scolorita, capelli scuri e lisci e lineamenti marcati; questo come aspetto fisico; ma non meno sfavorevole all'eroismo sembrava la sua mente. Amava tutti i giochi da maschi, e preferiva di gran lunga il cricket non solo alle bambole, ma ai più eroici divertimenti dell'infanzia, come accudire un ghiro, nutrire un canarino, o annaffiare un roseto. In effetti non aveva nessuna inclinazione al giardinaggio, e se le capitava di cogliere qualche fiore, era principalmente per disobbedire, almeno così si poteva ipotizzare dal fatto che scegliesse sempre quelli che le era proibito prendere. Tali erano le sue inclinazioni; le sue qualità erano altrettanto inusuali.

 Insomma, bisognerà arrivare sino in fondo per chiarirsi le idee e per capire cosa ci possa essere da raccontare su una fanciulla così “inusuale” per essere l’eroina di un romanzo?

Ma non aspettiamoci in conclusione una chiave di lettura, una morale risolutiva. Anzi, quando noi lettori crediamo di aver colto il “sugo della storia”, la Austen abdica al suo ruolo di narratore onnisciente che ci guida nei meandri della vicenda. In modo irriverente e scanzonato, l'autrice provvede graziosamente a far sì che le ultime righe del romanzo ci confondano le idee: cosa dimostra quanto appena narrato? Quanto sia opportuna la tirannia dei padri o quanto sia doverosa la ribellione dei figli? suggerisce. A noi spetta il compito di scegliere; o forse no, perché, in fin dei conti, quello che conta in una storia è proprio la storia, il libero gioco della fantasia.