Leggerlo non
è stato facile. I Viceré è un romanzo complesso e corposo (nelle sue quasi
settecento pagine) condotto con una modalità narrativa tipicamente
ottocentesca, fatta di capitoli lunghi e di mille episodi che si intrecciano.
Ma De
Roberto è un grande narratore, uno di quelli che tiene in mano con fermezza le
vicende di almeno venti/trenta personaggi e, senza scomporsi, riesce a
mantenere una narrazione serrata, senza punti di stanchezza o tempi morti,
alternando con abilità e scioltezza sbalorditiva i punti di vista di ciascuno.
Davvero un caleidoscopio di personaggi per cui viene da chiedersi come mai il romanzo non abbia mai attirato (salvo rari casi) l’attenzione dei registi, a differenza di quanto è accaduto per il suo “cugino” più celebre, il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa che analogamente tratta delle vicende di una famiglia aristocratica siciliana nel medesimo periodo storico.
Leggendo i Viceré, ci si rende conto degli indiscussi debiti di Tomasi di Lampedusa verso il romanzo di De Roberto. L’atmosfera di complessiva decadenza, l’ingresso nella famiglia di nuovi componenti legati alla causa risorgimentale e, in qualche modo, al nuovo che avanza, l’idea di fondo che i cambiamenti politici siano stati ( e siano spesso) nulla più che una facciata, un’operazione di make up, rispetto alla sostanza di una società e di una cultura sempre uguali a se stesse.
Davvero un caleidoscopio di personaggi per cui viene da chiedersi come mai il romanzo non abbia mai attirato (salvo rari casi) l’attenzione dei registi, a differenza di quanto è accaduto per il suo “cugino” più celebre, il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa che analogamente tratta delle vicende di una famiglia aristocratica siciliana nel medesimo periodo storico.
Leggendo i Viceré, ci si rende conto degli indiscussi debiti di Tomasi di Lampedusa verso il romanzo di De Roberto. L’atmosfera di complessiva decadenza, l’ingresso nella famiglia di nuovi componenti legati alla causa risorgimentale e, in qualche modo, al nuovo che avanza, l’idea di fondo che i cambiamenti politici siano stati ( e siano spesso) nulla più che una facciata, un’operazione di make up, rispetto alla sostanza di una società e di una cultura sempre uguali a se stesse.
Un gigantesco romanzo corale, una trama vivida e realistica di vite e di
passioni sullo sfondo della Sicilia della seconda metà dell’Ottocento.
La vicenda
NON è presto detta. Il romanzo, si diceva, è complesso nell’intarsio di storie
e personaggi che l’autore segue in quasi cinquant’anni in cui la Storia, il
caso, le passioni ribaltano in continuazione ogni percorso avviato.
Personalmente, mi è capitato più volte, nel corso della lettura, di deporre il
libro dopo una trentina di pagine perché semplicemente, era accaduto troppo e
avevo bisogno di una pausa per riassestarmi rispetto ai a tutti i mutamenti narrati.
Al centro
loro, gli Uzeda, i Viceré, una delle famiglie più aristocratiche della Sicilia.
Ricchi e arroganti quanto compete al loro stato sociale. Non solo ricchi, ma anche
capricciosi, orgogliosi, vendicativi, litigiosi, avidi. Una stirpe di uomini e
donne arroccata da sempre nei propri privilegi di casta, destinata a scontrarsi
con un mondo che cambia.
Fra i tanti
personaggi, indimenticabili risultano quello della matriarca, la spietata
Principessa Tereza Uzeda, fiera odiatrice di ciascuna femmina della famiglia,
pronta a sacrificare la felicità di ciascuno dei propri figli in nome del
prestigio del casato e dei propri capricci di autocrate. Come non dimenticare
poi Don Blasco, monaco benedettino del convento di San Nicola, uno dei “porci
di Cristo”, monacato a forza, dedito a una vita di lusso e di vizi,
fratello-zio nemico di tutti i suoi consanguinei. E Raimondo? L’incontentabile conte
di Lumera annoiato della vita siciliana, l’uomo che riesce a trasformare in un
inferno la vita delle sue mogli con un miscuglio umiliante di indifferenza e
tradimenti? E poi Lucrezia, innamorata
(non sia mai detto!) di un patriota, Chiara, perennemente desiderosa di un
figlio che non arriva mai, Donna Ferdinanda, a cui viene impedito di sposarsi
per questioni dote, il principino Consalvo che riesce a capire e far suo lo spirito dei nuovi tempi.
Se, però, Il Gattopardo
di Tomasi di Lampedusa è oggi un romanzo universalmente conosciuto, studiato a
scuola e portato sullo schermo da Visconti, I
Viceré di De Roberto è rimasto, salvo rari casi, ai margini della memoria
collettiva, pur affrontando temi simili. La ragione non è soltanto una
questione di fortuna editoriale o cinematografica: sta anche nelle scelte
narrative.
Tomasi di Lampedusa concentra la sua storia attorno a pochi personaggi cardine — il Principe di Salina, Angelica, Tancredi, don Calogero — che diventano icone di un’epoca e rendono la vicenda facilmente memorizzabile e simbolica. La sua prosa, pur ricca e colta, predilige il ritmo del grande affresco poetico, dove ogni scena ha un valore emblematico.
Tomasi di Lampedusa concentra la sua storia attorno a pochi personaggi cardine — il Principe di Salina, Angelica, Tancredi, don Calogero — che diventano icone di un’epoca e rendono la vicenda facilmente memorizzabile e simbolica. La sua prosa, pur ricca e colta, predilige il ritmo del grande affresco poetico, dove ogni scena ha un valore emblematico.
De Roberto, al contrario, adotta la struttura del romanzo corale ottocentesco, disseminando l’attenzione su decine di figure, ciascuna con il proprio arco narrativo, spesso intrecciato e in continua evoluzione.
Ne nasce un ritratto
più realistico e sfaccettato, ma anche meno concentrato: la coralità, se da un
lato regala una rappresentazione più ampia e sociologicamente precisa,
dall’altro rischia di disperdere l'attenzione e le simpatie del lettore verso un
“centro emotivo” unico.
Entrambi i romanzi condividono un’idea di fondo: il Risorgimento e i mutamenti politici non cambiano la sostanza della società siciliana, che resta dominata dalle stesse logiche di potere, opportunismo e immobilismo. Tuttavia, mentre in Tomasi questa visione si veste di malinconia e nostalgia estetizzante, in De Roberto diventa un’analisi impietosa e priva di consolazione. Dove Il Gattopardo lascia al lettore una bellezza amara, I Viceré lascia una scomoda lucidità.