L'amicizia, di Marco Tullio Cicerone


Io solamente vi posso raccomandare di anteporre l’amicizia a tutte le cose umane: nulla infatti è così conforme alla natura, così adatto ai momenti felici e ai momenti avversi. 

(Cicerone, Lelio o L'amicizia) 


Difficile spiegare l’alchimia che sta alla base di un legame così spontaneo e indispensabile come l’amicizia. Del resto, da dove nasce questo nostro bisogno di relazione? Esistono "leggi" nell'amicizia? O forse dei limiti, dei confini oltre i quali non è più possibile l'affetto? Cosa rovina l'amicizia?
Cicerone, nel suo dialogo Sull’amicizia (De Amicitia), prova a rispondere a queste domande, a partire da una profonda convinzione: l'amicizia è simile, per tanti motivi, all'amore, con cui condivide del resto l’origine stessa della parola ( “entrambi traggono il loro nome da amare”). 
Diciamolo subito, l’opera di Cicerone non è un’antologia di frasi ad effetto quali si possono trovare nei romantici cioccolatini di una notissima marca italiana. Niente a che vedere con aforismi acchiappalike da postare su Instagram. Cicerone è quello che è, non a caso da millenni si è guadagnato la fama di spauracchio degli studenti. Eppure, proprio per sua complessità, l’opera tocca alcuni punti che investigano in profondità quella dimensione del rapporto con l’altro che può assumere la più gratuita e disinteressata forma.

L'opera, dedicata da Cicerone all'amico Tito Pomponio Attico, racconta di un'immaginaria conversazione, avvenuta nell'anno 129 a.C., fra Gaio Lelio, Quinto Muzio Scevola e Gaio Fannio. Cicerone riferisce di aver sentito il resoconto di questa conversazione dalla bocca dello stesso Scevola, a cui il padre lo aveva affidato da ragazzo, molti anni dopo che era avvenuta. La data non è casuale: il dialogo, nella finzione di Cicerone, si svolge pochi giorni dopo la morte di Scipione Emiliano, carissimo amico di Lelio, in un tempo ben lontano rispetto al 44 a.C., l’anno in cui, probabilmente, Cicerone compose il dialogo. Lontano dalle vicende politiche (nel pieno della dittatura cesariana Cicerone si era ritirato a vita privata), Cicerone si trova a immaginare, con una punta di malinconia (e non senza idealizzare), il mondo lontano del 129 a.C., gli uomini saggi e onesti che allora vivevano, la Roma dell’epoca, ancora vergine dall’orrore delle guerre civili che da lì in poi avrebbero distrutto la quiete dello Stato.
La riunione di Fannio, Scevola e Lelio è, dunque, agli occhi di Cicerone, un momento felice di sospensione degli affanni della Storia, in cui si riesce a trovare un’occasione per riflettere serenamente e apertamente, alla maniera dei filosofi greci come dice Lelio stesso, sulle relazioni umane che possono e devono essere di una migliore qualità rispetto alla spietata lotta per l’affermazione di sè a cui Cicerone assisteva quotidianamente nell’anno 44. a.C.
La conversazione prende avvio allorché Gaio Fannio domanda a Lelio come riesca a sopportare la perdita di Scipione. Lelio, inizialmente, fornisce una risposta di circostanza, di quelle che ci si sarebbe potuti aspettare da un Romano della classe dirigente dell’epoca. A Scipione nulla di male è accaduto, sostiene: la sua vita è stata piena e ricca di successi, la morte, d’altro canto, non è un male. Infatti, se l’anima non svanisce con il corpo, Scipione riceverà sicuramente il premio dei suoi meriti; se ogni consapevolezza cessa con l’esistenza fisica, Scipione non sente nulla e, dunque, non si rincresce di nulla. Dal canto suo, Lelio afferma di confortarsi per la scomparsa dell’amico, pensando alla bellezza del legame che li univa, il cui ricordo sarà eterno.
Lelio, dunque, rivela la sua tristezza, ma anche la quieta rassegnazione di chi, nel dolore della scomparsa di una persona cara, comprende che si tratta di un fatto inevitabile dell’esistenza e concentra i propri pensieri su quanto resta più che su quanto è perduto.
Su sollecitazione di Fannio, a questo punto, Lelio inizia una lunga riflessione (e qui la struttura dialogica dell’opera in parte si perde) non più sulla propria amicizia con Scipione, ma sull’amicizia in sé. A questo proposito Lelio non ha dubbi: l’amicizia è la cosa migliore data dagli dei agli uomini, dopo la sapienza. Essa, dunque, è in grado di rendere la buona sorte più splendida e più lieve l’avversa e per questo va anteposta a ogni altra cosa umana.


Lelio si addentra in un articolato monologo, individuando, sostanzialmente, due aspetti come fondanti dell’amicizia.
Innanzitutto, come già si diceva, l’amore. 
In un mondo come quello dell’aristocrazia romana, dove era indispensabile allacciare le giuste relazioni per ottenere appoggi alla propria carriera politica, Lelio sostiene, invece, che la natura dell’ amicizia sia slegata dal vantaggio che si può trarre dalla frequentazione di qualcuno. L’amicizia che realmente può definirsi tale non nasce per interesse, ma corrisponde alla naturale inclinazione, che ciascuno di noi ha, ad amare, di un amore che nasce spontaneo qualora si riconosce virtù in un altro essere umano.
L’amicizia dona la grande gioia della condivisione (“quale cosa più dolce che avere uno con cui tu possa dire tutto come con te stesso? E che gran frutto verrebbe dalla buona fortuna, se tu non avessi qualcuno che ne godesse, come tu stesso?”), ma soprattutto dona quello che è il suo frutto più prezioso, l’amore appunto. Senza relazione d’affetto, del resto, ogni cosa è destinata alla rovina (“se toglierai alla natura il vincolo dell’affetto, né una casa potrà reggersi, né una città”).
La virtù, collante della relazione amicale, è il secondo aspetto irrinunciabile di un’amicizia proprio perché  genera l’affetto dell’amicizia. Ciascuno di noi, allorché prova ammirazione per la virtù morale di un altro, inizia ad amarlo, e ciò, unito alla frequentazione e all’intimità che ne deriva, porta alla creazione di un vincolo che progressivamente diviene sempre più saldo. Se questa integrità morale persiste in ciascuno degli amici, l’amicizia è destinata a durare in eterno. L’amicizia, infatti, deriva dalla natura, argomenta Lelio, e le vere amicizie non possono quindi che durare eterne perché la natura è immutabile. 
D’altra parte, la virtù impedisce che si creino tutti quei sentimenti o comportamenti che possono ledere un’amicizia, fino a terminarla: la virtù allontana l’adulazione e la falsità, fa sì che non proviamo invidia per i successi dell’amico, impedisce di commettere azioni deplorevoli che possono indurre gli amici ad allontanarsi da noi.

Qui la riflessione di Lelio, e di Cicerone, vira decisamente dal piano etico a quello sociale e politico. In quanto relazione, l’amicizia ci vincola agli altri offrendoci opportunità e imponendoci limiti. Essa prescrive, almeno così dovrebbe essere, di non chiedere mai cose turpi ad un amico, né di farle, se richiesti. Soprattutto, afferma Lelio, per quanto l’amicizia sia preziosa, un amico non deve mai essere fedele a un amico fino al punto di mettersi contro lo Stato per essergli leale. 
Testimone di convulsi anni di guerre civili, Cicerone non può fare a meno di  osservare che la salvaguardia del bene collettivo deve sempre prevalere sugli interessi individuali o di una fazione. La qualità dei rapporti umani, coltivati con dedizione e impegno morale, migliora la vita dei singoli e conserva la coesione delle comunità.
Cicerone si rende conto, mentre Lelio espone le sue riflessioni, che questo modello di amicizia non è facilmente realizzabile: si tratta di un ideale “non volgare e mediocre”, non applicabile cioè al vulgus delle persone di ogni tipo, né alla mediocritas della gente comune. Non è neppure però un’idea astratta irrealizzabile, come precisa lui stesso, di quelle che “sono nell’immaginazione e nel desiderio”  ("quae finguntur aut optantur").
Infine, un'ultima, severa e concretissima esortazione: l’amico è come un altro se stesso e come tale va amato, senza nutrire l’irragionevole pretesa, come accade per lo più, di avere un amico quale noi stessi non sappiamo essere.  Perché "la natura non ama che vi sia alcuna cosa solitaria, e sempre s'appoggia, per così dire, a un qualche sostegno; e gli amici più cari costituiscono il più dolce dei sostegni"