I suoi versi attirano subito l’attenzione dei lettori più disarmati come di quelli più esperti, fondono musicalità e immagini di audacia onirica, trasformano ogni parola in una sciabolata, in un colpo preciso e violento che mette a nudo la carne viva delle cose.
Eppure, nel cuore della poesia vi è la voce lirica, di un giovane poeta dumb che si dice senza parole, muto, incapace di articolare discorsi, di mettere in sequenza vocaboli ed esprimersi. Poeta ben strano, dunque, quello che non sa dire. E, infatti, mentre afferma di non avere le parole, le trova, ed eccole lì: è la poesia stessa che si stende sul foglio. Egli parla alla rosa appassita, alle proprie vene, a un uomo morto impiccato, alla tomba della propria amata. Racconta, come svela l’ultimo verso di ogni strofa, di sé, della sua giovinezza, della sua creta, del suo sudario. Ma anche dell’universo (the stars) e dell’origine (the spring) da cui tutto scaturisce, lui compreso, come tutti noi.
L’intento panteistico della poesia di Thomas è uno degli aspetti in cui il poeta si mostra più debitore alla cultura celtica e a una concezione animista della natura: essa non è qualcosa che va corretta, dominata, sfruttata o, all’opposto, contemplata e goduta. È semplicemente. Potente e tremenda, meravigliosa e indomabile, misteriosa, inaccessibile alla piena comprensione razionale. Per questo, oggetto di venerazione. Di fronte a questa forza (alla Forza), l’uomo può solo immergersi in essa perché solo in essa troverà bellezza, consolazione e solo in essa troverà se stesso, nel momento in cui riesce a perdere sé. In tal modo si può dispiegare la forza immaginativa dell’uomo, la natura di un essere che sa creare, dal nulla, esseri che hanno dimora solo nella sua mente.
Il testo originale viene qui accompagnato dalla traduzione italiana di
Eugenio Montale.
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer.
And I am dumb to tell the crooked rose
My youth is bent by the same wintry fever.
The force that drives the water through the rocks
Drives my red blood; that dries the mouthing streams
Turns mine to wax.
And I am dumb to mouth unto my veins
How at the mountain spring the same mouth sucks.
The hand that whirls the water in the pool
Stirs the quicksand; that ropes the blowing wind
Hauls my shroud sail.
And I am dumb to tell the hanging man
How of my clay is made the hangman's lime.
The lips of time leech to the fountain head;
Love drips and gathers, but the fallen blood
Shall calm her sores.
And I am dumb to tell a weather's wind
How time has ticked a heaven round the stars.
And I am dumb to tell the lover's tomb
How at my sheet goes the same crooked worm.
La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore,
guida la mia verde età; quell’impeto che squassa le
è per me distruzione. [radici degli alberi
E muto non so dire alla rosa avvizzita
che questa febbre invernale piega anche la mia
[giovinezza.
La forza che guida l’acqua tra le rocce,
guida il mio rosso sangue; quella stessa che asciuga le
le mie raggruma; [sorgenti che gridano,
e son muto a gridare alle mie vene
che a quell’alpestre polla succhia la stessa bocca
La mano che mulina l’acqua dentro alla pozza
sommuove il fondo limo; quella che lega i vènti, ora
della mia vela spinge. [il sudario
E sono muto a dire all’impiccato
quant’è della mia argilla in chi lo impicca.
Le labbra del tempo lambiscono dove la fonte fa vena;
goccia l’amore, gonfia, ma il sangue che cade, di lei
addolcirà le pene. E sono muto a dire al soffio che si leva
che paradiso è scandito dal tempo intorno alle stelle:
muto a dire alla tomba dell’amante
che sul mio letto appare lo stesso verme aggrinzito.