Dylan Thomas, 18 Poems

 




Nel 1933 Dylan Thomas è un ragazzo di diciannove anni. Proviene da Swansea, ventosa città gallese affacciata sul Mar Celtico, dove ha trascorso un’infanzia ricca di letture. È un giovane intenso e sensibile, ha lasciato la scuola all’età di sedici anni per dedicarsi al mestiere di scrivere. Inizialmente, si guadagna la vita come giornalista, ma poi si rivolge verso la sua autentica passione, la poesia. 
I suoi versi attirano subito l’attenzione dei lettori più disarmati come di quelli più esperti, fondono musicalità e immagini di audacia onirica, trasformano ogni parola in una sciabolata, in un colpo preciso e violento che mette a nudo la carne viva delle cose.
A Londra, dove si reca nel 1933, Thomas e la sua opera non passano inosservati e l’anno successivo il poeta pubblica la sua prima raccolta di versi, 18 Poems. Sarà l’inizio di una breve e feconda vicenda creativa che si protrarrà, fra problemi personali ed economici, fino alla morte del poeta, avvenuta nel 1953. Dylan Thomas diverrà un’autentica celebrità della sua epoca, osannato dai critici, invitato e ricercato da intellettuali, giornali e radio, ma sempre prigioniero di se stesso, della propria intemperanza e del proprio istrionismo, penosamente dipendente dall’alcool, avvolto in un tormentoso sentimento verso la moglie Caitilin Mcnamara, l’unica donna, fra le tante, che egli abbia mai veramente amato. Vita/morte, creazione/distruzione sono i romantici nuclei attorno a cui Dylan Thomas costruisce la sua opera poetica, secondo un procedimento per cui ogni testo si sostanzia di immagini che scaturiscono l’una dall’altra, completandosi, contraddicendosi, superandosi. L’impronta emozionale e visionaria della sua ispirazione scaturisce potentemente e prepotentemente dalle pagine, in un repertorio di immagini cupe e dirompenti. 

The force that through the green fuse drives the flower è uno dei suoi testi più famosi, scritto appunto nel 1933, a soli 19 anni, ma è un testo che rivela una maturità espressiva piena e compiuta, di cui, in un’età così giovane, hanno saputo dare prova solo alcuni dei più grandi poeti mai esistiti come Leopardi o Rimbaud. 

Eppure, nel cuore della poesia vi è la voce lirica, di un giovane poeta dumb che si dice senza parole, muto, incapace di articolare discorsi, di mettere in sequenza vocaboli ed esprimersi. Poeta ben strano, dunque, quello che non sa dire. E, infatti, mentre afferma di non avere le parole, le trova, ed eccole lì: è la poesia stessa che si stende sul foglio. Egli parla alla rosa appassita, alle proprie vene, a un uomo morto impiccato, alla tomba della propria amata. Racconta, come svela l’ultimo verso di ogni strofa, di sé, della sua giovinezza, della sua creta, del suo sudario. Ma anche dell’universo (the stars) e dell’origine (the spring) da cui tutto scaturisce, lui compreso, come tutti noi. 

La poesia di Thomas, in realtà, ha poco da dire e molto da mostrare: è immagine e materia al tempo stesso. Il poeta muto parla a ciò che non sa e non può ascoltare. Non è una contraddizione, ma anzi, proprio questo è il punto. I cammei di immagini inanellati nel testo rimandano nella maniera più immediata e brutale alla materia di cui ogni cosa è costituita  (linfa e sangue ) così come alla sua distruzione. Il poeta è al centro della tempesta in cui si scontrano energia creatrice e forza distruttrice, egli sperimenta l’essenza, il tormento e l’estasi, la bellezza e l’orrore dell’esistere.





L’intento panteistico della poesia di Thomas è uno degli aspetti in cui il poeta si mostra più debitore alla cultura celtica e a una concezione animista della natura: essa non è qualcosa che va corretta, dominata, sfruttata o, all’opposto, contemplata e goduta. È semplicemente. Potente e tremenda, meravigliosa e indomabile, misteriosa, inaccessibile alla piena comprensione razionale. Per questo, oggetto di venerazione. Di fronte a questa forza (alla Forza), l’uomo può solo immergersi in essa perché solo in essa troverà bellezza, consolazione e solo in essa troverà se stesso, nel momento in cui riesce a perdere sé.  In tal modo si può dispiegare la forza immaginativa dell’uomo, la natura di un essere che sa creare, dal nulla, esseri che hanno dimora solo nella sua mente.

In questo contesto il poeta è colui che si immerge e si perde, lasciandosi fare natura. Egli diviene poeta, dunque, proprio in quanto diviene dumb, incapace di trovare le parole, quando regredisce a livello della mera esistenza: perde se stesso, trova se stesso, nell’alfa e omega dell’universo. 
Il distico finale può, in tal senso, essere letto non come conclusione del testo, ma come ritornello (anche per la sua eccentricità strutturale rispetto alle altre strofe), di una poesia che si presenta, in virtù della sintassi ripetitiva e ripetuta, per la musicalità, per la fascinazione romantico-gotica dell’atmosfera, come una vera e propria ballata. Amore e morte divengono la cifra della poesia, desublimati agli occhi del lettore: nulla di ideale o eroico, solo una tomba, un sudario e un verme.

Il testo originale viene qui accompagnato dalla traduzione italiana di Eugenio Montale.  



The force that through the green fuse drives the flower
Drives my green age; that blasts the roots of trees
Is my destroyer.
And I am dumb to tell the crooked rose
My youth is bent by the same wintry fever.

The force that drives the water through the rocks
Drives my red blood; that dries the mouthing streams
Turns mine to wax.
And I am dumb to mouth unto my veins
How at the mountain spring the same mouth sucks.

The hand that whirls the water in the pool
Stirs the quicksand; that ropes the blowing wind
Hauls my shroud sail.
And I am dumb to tell the hanging man
How of my clay is made the hangman's lime.

The lips of time leech to the fountain head;
Love drips and gathers, but the fallen blood
Shall calm her sores.
And I am dumb to tell a weather's wind
How time has ticked a heaven round the stars.

And I am dumb to tell the lover's tomb
How at my sheet goes the same crooked worm.

La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore,
guida la mia verde età; quell’impeto che squassa le
è per me distruzione. [radici degli alberi
E muto non so dire alla rosa avvizzita
che questa febbre invernale piega anche la mia
[giovinezza.

La forza che guida l’acqua tra le rocce,
guida il mio rosso sangue; quella stessa che asciuga le
le mie raggruma; [sorgenti che gridano,
e son muto a gridare alle mie vene
che a quell’alpestre polla succhia la stessa bocca

La mano che mulina l’acqua dentro alla pozza
sommuove il fondo limo; quella che lega i vènti, ora
della mia vela spinge. [il sudario
E sono muto a dire all’impiccato
quant’è della mia argilla in chi lo impicca.

Le labbra del tempo lambiscono dove la fonte fa vena;
goccia l’amore, gonfia, ma il sangue che cade, di lei
addolcirà le pene. E sono muto a dire al soffio che si leva
che paradiso è scandito dal tempo intorno alle stelle:

muto a dire alla tomba dell’amante
che sul mio letto appare lo stesso verme aggrinzito.

(trad. di E. Montale)