Homo Faber. La tragedia antica dell'orgoglio umano nel capolavoro di Max Frisch

 



Non credo alla fatalità o al destino, sono un tecnico, abituato ad affidarmi alle formule della probabilità. Perché mai fatalità? Lo ammetto: senza l'atterraggio di fortuna nel Taumapalis tutto sarebbe stato diverso; non avrei mai conosciuto il giovane Hencke, forse non avrei mai più saputo nulla di Hanna, ancora oggi non saprei di essere padre. [...] Ma perché mai fatalità? Non ho bisogno della mistica per considerare l'improbabile come un fatto empirico; mi basta la matematica. 

Quanto ciascuno di noi è davvero padrone della propria vita? Fino a che punto le nostre azioni, la nostra volontà, le nostre capacità sono in grado di determinare quanto accade nelle nostre esistenze e nel mondo attorno a noi? 
Walter Faber, il protagonista del romanzo, pubblicato nel 1957 dallo scrittore svizzero Max Frisch, non ha dubbi. Egli è, infatti, come denuncia il suo nome, un “artigiano”, un tecnico, incarnazione dell’assoluta e incondizionata fede dell’uomo moderno nella trinità laica "scienza-tecnologia-progresso". Abituato a rapportarsi alla vita e al mondo tramite l’esclusivo strumento della ragione, depurato dagli inutili orpelli delle emozioni e dei sentimenti (paure, speranze, aspettative, amore), Faber conduce una vita dedita al lavoro come ingegnere per l’Unesco. Nel proprio passato ha alle spalle, come tutti, scelte dolorose, ma compiute comunque secondo il pieno conforto della ragione ed è così che è diventato quello che è, un uomo di successo, nel pieno controllo dalla propria vita.  Faber affronta ogni evento della propria esistenza seguendo una stretta logica di bilanciamento fra sforzo e beneficio, fra utile e ricavo, convinto che tale logica possa essere rigorosamente applicata a ogni scelta propria e dell'umanità.

Mi piace svegliarmi da solo e non dover dire una parola. Dov'è la donna che lo capisce? solo sentirmi chiedere come ho dormito mi irrita, perché coi pensieri sono già più avanti, sono abituato a pensare in avanti e non indietro, a programmare. Le tenerezze serali sì, ma le tenerezze al mattino non le sopporto e passare più di tre o quattro giorni insieme a una donna, detto francamente, è stato sempre l'inizio dell'ipocrisia, sentimenti al mattino, nessun uomo li sopporta. [...] Per me la gente è una fatica, come dicevo, anche gli uomini. Per quanto riguarda gli umori non ci bado, come dicevo. A volte si diventa teneri , ma poi ci si riprende. Fenomeni di fatica! Come nell'acciaio, anche i sentimenti, così ho potuto constatare, sono fenomeni di fatica e nient'altro, almeno nel mio caso. 


Ma (se non ci fossero i “ma”, non ci sarebbero storie da raccontare), un giorno, su un aereo, il passeggero seduto accanto a lui inizia a parlargli. Si tratta, si scoprirà ben presto, del fratello di un vecchio amico d’infanzia. Da qui una lunga serie di insignificanti circostanze accidentali  che condurranno Faber , di caso in caso, a ritrovare Hanna, la donna che aveva amato in gioventù, e ad incontrare una figlia che non sapeva di avere, fino allo  sconvolgimento completo della vita dell’uomo che aveva la propria vita completamente sotto controllo.
La narrazione, tutta condotta in prima persona da Faber stesso, si sviluppa in un appassionante romanzo on the road, nei luoghi in cui egli viene come risucchiato dal flusso delle coincidenze che si concatenano e in cui, per una sorta di tragico contrappasso, la volontà del protagonista appare avere un ruolo marginale: Houston, deserto del Taumapalis, Guatemala, Venezuela, New York, e poi l'Europa, Parigi, Avignone, l'Italia e, soprattutto, la Grecia. Ed è proprio in Grecia che accadono alcuni degli avvenimenti decisivi della storia, quasi che Frisch abbia voluto inscenare nel loro luogo di origine il dramma ancestrale e attualissimo, la tragedia di Faber e della sua hybris, antica ed eterna, di non saper accettare l'essenza della condizione umana: il limite. E, come in una tragedia antica, assistiamo anche nel romanzo alla necessaria punizione dell’hybris dell’uomo, convinto, migliaia di anni fa come oggi,  di non avere limiti che lo possano condizionare. 
Il titolo del romanzo, il nome stesso del protagonista, rimandano, del resto alla lunga tradizione antropocentrica della cultura europea di cui Frisch svela l'arroganza. All'idea per cui "ciascuno è artefice della propria sorte", così come espressa nella celebra massima attribuita al console romano Appio Claudio Cieco ("faber est suae quisque fortunae"), Frisch contrappone il capriccio del caso, il quid imprevedibile, impensabile, inimmaginabile che penetra anche nelle esistenze più ordinate o disciplinate. Alla celebrazione dell'homo faber, l'artefice che trasforma la realtà alla proprie esigenze attraverso la tecnologia, così come celebrato da Henri Bergson nell'Evolution créatrice (1907), Frisch contrappone la realtà che si impone sull'uomo, ricordandogli impietosamente il limite della sua condizione. Limite che, come emerge chiaramente dalla narrazione, è costituito dalla natura stessa delle cose, proprio quella di cui il faber (Faber) si sente padrone e signore.

Quanti esseri umani nutre la terra? l'incremento è possibile, compito dell'Unesco: industrializzazione dei territori sottosviluppati, ma l'incremento non è illimitato. La politica messa di fronte a problemi radicalmente nuovi. Uno sguardo alla statistica: recessione della tubercolosi, per esempio, successo della profilassi, recessione dal 30 all'8 per cento. Il buon Dio! Lui lo faceva con le epidemie, noi gliele abbiamo tolte di mano. Da cui consegue: dobbiamo togliergli di mano anche la riproduzione. Nessun motivo di provare scrupoli di coscienza, al contrario: dignità dell'uomo nell'agire secondo ragione e decidere per sé. Oppure sostituiamo le epidemie con la guerra. Basta col romanticismo. 


Inevitabile, dunque, il drammatico finale, in una originale e modernissima riscrittura del mito di Edipo. Nel romanzo, infatti, il limite è incarnato dal personaggio di Sabeth, la ragazza incontrata da Faber casualmente sul piroscafo diretto per l’Europa, la figlia-amante del protagonista. Come Hanna, la madre di Sabeth, rinfaccerà a Faber, egli commette l'errore di comportarsi “come se non esistesse la vecchiaia, quindi contro natura”, perché, spiega Hanna, “non possiamo abolire la vecchiaia continuando ad addizionare, sposando i nostri figli”, come se il tempo non esistesse e la vita fosse costituita solo da una serie di "aggiunte" a quello che è stato, come se la morte non esistesse. La tragica vicenda di amore e morte che coinvolge il padre-marito e la figlia-amante sanciscono lo scacco del lucido delirio di onnipotenza del “faber”, costretto ad accettare la potenza del caso e il trionfo della natura sulla cultura. In un esplicito richiamo al mito biblico, non a caso nel romanzo sarà proprio la comparsa di un serpente, simbolo della tentazione delirante della onniscienza, del desiderio incontrollato dell'essere umano di oltrepassare la sua natura per farsi dio, a porre fine alla notte edenica che Faber e Sabeth trascorrono insieme, prima della catastrofe. 
Le ultime pagine del romanzo sembrano restituire un Faber meno ironico e razionale verso l’esistenza, più aperto a cogliere la bellezza degli attimi, più coinvolto nelle vicende umane. E’ troppo tardi? Nell’asettica stanza di ospedale in cui si svolgono le ultime scene del romanzo scienza e tecnologia non aiutano, anzi, non servono più. 
Serve solo riannodare i fili intrecciati di esistenze scomposte. Perché, come commenta Hanna,"la vita non è materia che si può dominare con la tecnologia"