Un gallo ad Asclepio. La luna è tramontata, di John Steinbeck

Jacques-Louis David, La morte di Socrate, 1787

 Io sono un piccolo uomo e questa è una piccola città, ma anche nei piccoli uomini ci deve essere una scintilla che a volte può scoppiare in una fiammata.  
(J. Steinbeck, La luna è tramontata) 


Che cos’è la vita di un uomo quando perde la libertà? Vale ancora la pena di vivere, quando il senso e la dignità della vita vengono meno?
Sono questi gli interrogativi che John Steinbeck solleva nella coscienza del lettore con il suo romanzo breve “La luna è tramontata”, proponendo una non discutibile risposta: la libertà è bene supremo e irrinunciabile per l’essere umano e per essa vale la pena di lottare e morire. Pubblicato nel 1942, quando cioè in Europa imperversava la seconda guerra mondiale e interi popoli lottavano per la vita e per la libertà, il romanzo ambienta la vicenda in un non precisato paese che, di punto in bianco, viene occupato da un esercito di altrettanto non precisati invasori.
L’irruzione dell’assurdo nella banale vita di un anonimo villaggio segna l’inizio del racconto.

Alle dieci e quarantacinque tutto era finito. La città era occupata, i difensori abbattuti e la guerra finita. L’invasore s’era preparato per questa campagna con la stessa cura che per altre di maggiore ampiezza.
[…]Le truppe locali, giovanottoni alti e dinoccolati, udirono gli aeroplani e videro in distanza i paracadute, e tornarono in città a passo di corsa. Quando arrivarono, l’invasore aveva già munito la strada con le mitragliatrici. I giovanottoni dinoccolati, poco esperti della guerra e per nulla della disfatta, aprirono il fuoco con i loro moschetti. Le mitragliatrici crepitarono per un istante e i sei soldati divennero morti ammassi crivellati e altri tre feriti ammassi crivellati, e tre soldati fuggirono nella città con i loro moschetti.
Alle dieci e trenta, la banda di ottoni dell’invasore suonava musiche graziose e sentimentali sulla piazza della città è […] Alle dieci e trentotto i sei corpi crivellati erano sepolti.

I pacifici abitanti non sanno come reagire di fronte all’accaduto, tanto sono disabituati a trovarsi in guerra e a essere sconfitti. La casa del sindaco del paese, il signor Orden, è in subbuglio non per le conseguenze diplomatiche, politiche o semplicemente pratiche dell’avvenimento, quanto piuttosto per le questioni di buona creanza: la moglie di Orden si affaccenda per le stanze domandandosi quanti saranno gli ufficiali che si presenteranno a breve per i quali dovrà organizzare, come ci si aspetta da una brava padrona di casa, un’adeguata accoglienza, il domestico spolvera, il sindaco si procura di tagliarsi gli inestetici peli delle orecchie in modo da avere un aspetto inappuntabile.
Dal canto loro, anche i nemici (dai nomi vagamente germanici, va rilevato) si compiacciono dell’esito della facile conquista, convinti che il paese occupato sia abitato da uomini di indole tranquilla che difficilmente creeranno problemi di alcun tipo di fronte alle loro richieste di lavorare all’estrazione del carbone nelle miniere della zona ai fini di rifornire di energia l’esercito, guidato dal grande Capo, che altrove, ben lontano, avanza prodigiosamente riportando una serie di mirabili vittorie.
Eccoli qui gli occupanti, riuniti in una stanza della casa che il signor Orden, a dire il vero assai malvolentieri, a loro concesso.

Quelli erano gli uomini dello stato maggiore che giocavano tutti alla guerra come i ragazzi giocano ai “quattro cantoni”. Il maggior Hunter pensava alla guerra come a un lavoro aritmetico da compiersi, per potersene poi tornare presso il proprio caminetto; il capitano Loft come alla carriera perfetta di un giovanotto perfettamente allevato; e i sottotenenti Prackle e Tonder come a una cosa fantastica, di sogno in cui nulla era molto reale. E la loro guerra fino a quel momento era stata un gioco: belle armi e piani architettati contro nemici disarmati e privi di qualunque piano. Non avevano perso nessuna battaglia e sofferto ben poche ferite. 

Oppressi e oppressori appaiono allo stesso modo “vergini” rispetto alla durezza della guerra che concepiscono come un’idea astratta, che oscilla fra una complicazione imprevista, un gioco, un palcoscenico di atti eroici.  Unica eccezione, come Steinbeck stesso puntualizza, è il colonello Lanser, dell’esercito invasore, l’unico che “sapeva che cosa sia realmente la guerra, quando dura già da un certo tempo”.
Poco a poco, però, tutti giungono a comprendere la fino allora sconosciuta realtà della guerra: diffidenza, sospetto, odio, morte. Tutti precipitano nell’abisso dei sentimenti più bui dell’animo umano, in quella situazione di tenebra assoluta a cui allude il titolo del romanzo: la luna è tramontata, “moon is down”, come afferma Fleance rivolto a Banquo, nel Macbeth di Shakespeare, poco prima che si compia l’orrenda uccisione di Duncan da parte di Macbeth e da lì scaturisca la lunga serie di eventi luttuosi della vicenda.
Soprattutto una cosa ferisce Steinbeck: l’uccisione degli innocenti. Tutti coloro che sono fucilati o barbaramente uccisi, da entrambe le parti, non hanno fatto nulla di male: chi protesta di essere un uomo libero e di non poter essere costretto a lavorare per un altro contro la propria volontà, il soldato occupante che svela a una ragazza del posto i suoi teneri sentimenti nei suoi confronti o coloro che, semplicemente, si rifiutano di collaborare col nemico.
Steinbeck, cantore degli oppressi, rispetto ai suoi più celebri romanzi come “Uomini e topi” o “Furore”, sposta in quest’opera la sua attenzione dagli ultimi nella scala sociale ai vinti, a coloro che sono stati asserviti alla volontà altrui con la violenza. Come sempre, le loro umili storie divengono gesta di eroi.  
La narrazione viene condotta in un’atmosfera surreale, con toni che oscillano dal drammatico all’ironico, soprattutto nelle ultime pagine dove, la rievocazione (la citazione quasi letterale, per essere precisi) di alcuni  passi del Fedone di Platone, consente a Steinbeck di concludere con il ricordo dell’ironia socratica.
Come racconta Platone, infatti, Socrate, ingiustamente accusato dai suoi concittadini ateniesi di empietà e di corruzione della gioventù, dopo aver strenuamente professato la propria innocenza in tribunale e aver rifiutato l’opportunità di fuga organizzata dal fedele discepolo Critone, accetta serenamente di morire così come la sentenza ha stabilito: bevendo una pozione di cicuta. Le sue ultime ore di vita sono raccontate appunto nel Fedone da cui sappiamo che Socrate, sul punto di lasciare questa vita, conforta i propri discepoli in lacrime, dissertando dell’immortalità dell’anima. Le sue ultime parole, quando oramai il veleno sta già facendo effetto, sono rivolte al fedele Critone. Nulla di memorabile o nessun insegnamento ispirato dal momento estremo, ma una frase spiazzante e inaspettata, in linea con l’eccentricità che al personaggio di Socrate viene attribuita da tutte le fonti antiche.

Ed egli girò un poco per la stanza; e, quando disse che le gambe gli si appesantivano, si sdraiò supino; perché così gli consigliava l’uomo. E intanto costui, quello che gli aveva dato il farmaco, non cessava di toccarlo, e di tratto in tratto gli esaminava i piedi e le gambe; e, a un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò se sentiva. Ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette le gambe. E così, risalendo via via con la mano, ci faceva vedere com’egli si raffreddasse e si irrigidisse. E tuttavia non smetteva di toccarlo; e ci disse che, quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. E oramai intorno al basso ventre, era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì - perché s’era coperto - e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce, - O Critone, disse, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate. - Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire. A questa domanda egli non rispose più: passò un po’ di tempo, e fece un movimento; e l’uomo lo scoprì; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi. (Platone, Fedone)

Al di là delle varie interpretazioni che nel tempo sono state suggerite riguardo alle ultime parole di Socrate, il curioso monito a Critone affinché si ricordi di sacrificare un gallo al dio della medicina Asclepio viene ripreso da Steinbeck nelle ultime righe del romanzo con un senso ben preciso: Orden si avvia alla morte, invitando il suo amico Winter a pagare il debito ad Asclepio. Il sacrificio del sindaco del paese diviene l’ennesimo sacrificio (come se la Storia non ne fosse già piena!) del giusto ingiustamente punito, proprio come era accaduto a Socrate. La risposta di Winter è la stessa di Steinbeck: “il debito sarà pagato”. Perché là dove gli uomini innocenti sacrificano la loro vita nel nome dei valori in cui credono, chi resta ha il supremo compito di raccogliere il testimone delle loro azioni e portarle avanti, soprattutto quando ovunque regnano le tenebre.