Quando si parla di Verismo, nella mente dei più si affacciano ricordi scolastici dei Malavoglia, della Provvidenza e dell’affare dei lupini. Altri scrittori veristi come Luigi Capuana e Federico De Roberto risultano, in genere, più noti che letti e, in fin dei conti, un lettore del giorno d’oggi non è effettivamente assai motivato ad andare a scoprire le vicende che agitavano la Sicilia rurale della seconda metà dell’Ottocento. Eppure molti dei libri scritti da Verga, Capuana, De Roberto meriterebbero davvero una chance.
Fra questi il capolavoro di Luigi Capuana, Il marchese di Roccaverdina. Alla prime pagine la vicenda appare simile a quella dei vari Mazzarò e Mastro Don Gesualdo e in parte lo è; in realtà il romanzo si sviluppa come un’appassionante e moderna indagine psicologica delle passioni e contraddizioni dell’ animo del protagonista.
Il fatto curioso è che Il marchese di Roccaverdina, caso non unico, è una sorta di "reliquia" letteraria, un libro cioè, sopravvissuto alla sua epoca. Quando Capuana dà alle stampe Il marchese di Roccaverdina è il 1901. Si tratta per l’autore un po’ del romanzo di una vita, quello a cui Capuana aveva lavorato per circa vent’anni, avendolo concepito inizialmente con il titolo, meno azzeccato, de Il marchese Donna Verdina, così come emerge dalla corrispondenza fra lui e il suo amico Giovanni Verga. E quando Capuana esce, finalmente, con il suo capolavoro, Verga ha già scritto e pubblicato tutte le sue opere più importanti, tutti i capisaldi del Verismo: Vita dei Campi, I Malavoglia, Mastro- don Gesualdo, Novelle rusticane. Anzi, il Verismo è divenuta oramai una maniera, quasi una moda, tant’è che il giovane Gabriele D’Annunzio, ancora in cerca di una sua originale linea letteraria, pubblica, quasi agli esordi della sua carriera, le Novelle di San Pantaleone (1886), richiamandosi a situazioni veriste, come a un modello imperante di facile attrazione sul lettore.
Non solo, nel 1901 il Verismo si è già esaurito, superato come è stato da decine di opere decisamente più innovative e già tali dal preludere alla sensibilità novecentesca: À rebours di J.K Huysmans (1884), Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr. Hyde di R. L. Stevenson (1886), ), Il piacere di G. D’Annunzio (1889), Il ritratto di Dorian Gray di O. Wilde (1890). E questo solo per citare alcuni esempi.
Il marchese di Roccaverdina risulta dunque un libro sopravvissuto a un ricco passato, ma pur sempre passato, e presenta in effetti tutti i canoni di una vicenda verista: ambientazione nella Sicilia rurale, attenzione alle vicende della povera gente immancabilmente tribolata, storia corale di un villaggio e delle vite che si intrecciano nelle comunità, sguardo pessimista e disincantato sulla realtà. La vicenda del romanzo, una cupa storia di amore, gelosia e delitto, contiene poi tutti gli ingredienti che tanto successo avevano conferito alla Cavalleria Rusticana di Verga, pubblicata ben trent’anni prima.
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Amore, gelosia, delitto sono gli ingredienti della novella "Cavalleria Rusticana " di G. Verga che ritroviamo nel romanzo di L. Capuana |
Ma Capuana riesce abilmente a fondere nell'opera elementi
che si ispirano a sensibilità assai distanti: l’attenzione tardo-romantica per
gli umili e la predilezione per la storie drammatiche e dense di colpi di
scena, i toni cupi del romanzo gotico, così come la fascinazione verso i tormenti interiori, le patologie
dell’animo e le ossessioni, in un’oscillazione fra magistero scapigliato e
apertura all’irrazionalismo decadente.
La vicenda in breve. Il marchese
di Roccaverdina, Antonio Schirardi, è il sanguigno feudatario delle fertili
terre di Rabbato, Margitello e Casalicchio. Dopo aver tenuto per lunghi anni
come amante la giovane contadina Agrippina Solmo, il marchese, cedendo alle convenzioni
sociali che mai consentirebbero un’ufficializzazione della sua unione con una
donna di umili origini, affida in sposa la ragazza a Rocco Criscione, suo braccio
destro, noto a tutti come Rocco del marchese, per la devozione che dimostra nei
confronti del suo signore. Su esplicita richiesta, anzi ingiunzione, del marchese,
i due però saranno marito e moglie solo agli occhi del mondo. Con l’andare del tempo, però, diffidenza
e gelosia si insinuano nella mente del marchese che, dopo un lungo tormento,
sospettando che i due non abbiano tenuto fede al patto preso con lui, si
apposta in piena notte dietro le siepi di una strada di campagna e uccide Rocco
che stava rincasando in groppa alla sua mula.
Per vari motivi, i sospetti dell’omicidio
cadono in breve su un compaesano, Neli
Casaccio, che viene pertanto processato e condannato a quindici anni di
carcere, nonostante le sue incessanti professioni di innocenza. Da qui parte la vera e propria vicenda del
romanzo che si concentra appunto sul protagonista. La posizione sociale del
marchese lo pone immediatamente, agli occhi dei contadini e degli abitanti del
paese, al di sopra di ogni sospetto, mentre egli prosegue la sua vita
da ricco possidente terriero.
La grandezza e la sicumera propria dei
Roccaverdina (i Maluomini, come li chiamano in paese per l’arroganza
aristocratica che anima la stirpe) è solo la facciata leggibile al
mondo. Nel proprio intimo, il marchese vive in una continua oscillazione fra
rimorso, desiderio di espiazione, tentativi di giustificare il proprio delitto,
speranza di dimenticare, volontà di voltare pagina nella propria vita, in una
sorta di Delitto e Castigo all’italiana, anzi alla siciliana. La smania di non pensare, di non farsi
dominare dall’ossessione, lo induce a un attivismo straordinario: uscendo dallo
splendido isolamento di molti aristocratici, decide di mettersi al passo con il
nuovo mondo che avanza, fondando, insieme ad alcuni dei notabili del paese, una
società agricola che valorizzi e commercializzi la produzione di vini locali, candidandosi
alla carica di sindaco del paese, lasciandosi coinvolgere nelle piccole
rivalità della politica locale. Il marchese, inoltre, acconsente alle
insistenze di una vecchia zia baronessa e cerca di occuparsi della
continuità della stirpe dei Roccaverdina, unendosi
in matrimonio con una donna sua pari, antica fiamma di gioventù, e allontanando
definitivamente da sé Agrippina Solmo.
La ragione lo spinge ad
acquietare la coscienza: nessuno sospetta di lui, il passato è oramai non più
modificabile. La frequentazione del cugino, il cavalier Pergola, lo mette in
contatto con idee anticlericali e materialiste che in parte lo rassicurano: l’uomo
è solo un anello dell’evoluzione, non una creatura divina, inferno e paradiso
non esistono, dopo la morte non vi sarà nessuno a cui rispondere delle nostre
azioni. Questo sforzo di eludere la morale della religione tradizionale con la
razionalità non gli impedisce però di essere preda di un’inquietudine che
prende la forma di un irrazionale spavento infantile di fronte al crocifisso
abbandonato nel mezzanino del palazzo di famiglia, alle storie di fantasmi raccontate
dai contadini, alle parole dell’avvocato don Aquilante che da sempre sostiene
di vedere le anime dei morti e di essere visitato dallo spirito di Rocco
Criscione.
Il personaggio del marchese
giganteggia, dunque, nel romanzo come una sorta di eroe romantico, in lotta
contro se stesso, nello slancio titanico di scardinare le meschine convenzioni
della morale comune. E nella definizione pienamente romantica del personaggio
Capuana si toglie la soddisfazione di emulare nientemeno che il modello
manzoniano, raccontandoci in uno dei passi più carichi di tensione l’insonne notte del marchese,
che richiama tanto e non a caso quella dell’Innominato.
Stette a lungo, con la testa fra
le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov’egli aveva
dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto
trovare sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la grazia del perdono!
Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine
improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità,
e ch’egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent’anni. Eppure niente era
mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li
scorreva con gli occhi, li numerava… No, niente era mutato. Egli soltanto era
diventato un altro. […] Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie
pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l’evidenza
persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po’ e poi consolato e
confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo,
affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient’altro. […] E tutto senza
soprannaturale, senza miracoli, senza Dio!... La materia che si disgregava
assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze..
Ah! Si era lasciato convincere
facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non
era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? […] Ma si sentiva
vinto, non ne poteva più.
Il marchese si avvia, dunque,
verso la fine che, tragicamente, sembra essergli stata assegnata fin dall’inizio
da un destino che, in fin dei conti, altro non è se non l’io del marchese
stesso, unica forza a cui egli non riesce mai a sfuggire, quasi che l’indole
dei Maluomini Roccaverdina costituisca una sorta di sigillo maledetto, di tara
ereditaria impossibile da scrollare.
Attorno a lui Capuana non
tralascia di tratteggiare un affresco vivissimo di mille caratteri - borghesi,
nobili, contadini – restituendo al lettore l’atmosfera di una Sicilia che egli
ben conosceva: il mondo dei contadini, costretti al duro lavoro dei campi,
sempre tormentati dallo spettro della fame e della miseria a cui sono
rassegnati, legati al loro padrone da un doppio filo di paura e devozione. Ma nel romanzo trova spazio anche il racconto del nuovo che
avanza: l’anticlericalismo, la voglia di svecchiare un’agricoltura latifondista
e per lo più poco produttiva.
Un ultimo accenno va fatto ai due
personaggi femminili centrali del romanzo: la signorina Zosima e, ovviamente,
Agrippina Solmo. Le due donne, accomunate dall’amore per il marchese, risultano
in realtà quasi antitetiche: graziosa, sensibile Zosima, pudica dei propri
sentimenti nel suo aristocratico riserbo, di una bellezza
prorompente e quasi demoniaca la seconda. Agrippina Solmo, a dire il vero, compare
a tratti nel romanzo, ma ogni sua apparizione risulta essere quella di un
diavolo tentatore, indipendentemente dalla volontà della donna stessa,
inconsapevole per lo più del suo sconvolgente potere. Anche Agrippina viene
travolta da una sorta di destino, quasi che, per lei, nella vita non vi sia
altro possibile se non amare e servire il suo signore.
Il lettore d'oggi, a dire il vero, preferirebbe vedere la Solmo capace di scuotersi dal ricatto sesso-potere che dà origine alla storia, ma tant'è... Capuana scelse di imbastire la vicenda e di concluderla come vedrà chi vorrà leggerla. Piaccia o non piaccia, il romanzo si presenta così ricco da tenere sulle spine il lettore fino all'ultima pagina, con una storia di quelle che... insomma, ci si potrebbe fare una fiction di almeno quattro puntate. Altro che libro da dimenticare.