Storia di vette e di poesia. L' Antonia, di Paolo Cognetti

 


Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola in alto si tende.

 

Perché leggere L’Antonia di Paolo Cognetti?

Da quando nel 1948 Eugenio Montale curò la prefazione della raccolta poetica Parole, pubblicata da Mondadori, Antonia Pozzi è diventata un nome della poesia italiana del Novecento. Negli ultimi decenni, inoltre, l’interesse crescente verso la scoperta e la riscoperta di opere e vicende di donne scrittrici, ha prodotto una valorizzazione della intensa e bellissima produzione della poetessa, scomparsa suicida a soli ventisei anni nel 1938. Su di lei si sono succeduti vari studi, è stato  aperto un sito (http://www.antoniapozz.it), sono anche stati girati film e documentari (Poesia che mi guardi, per la regia di Marina Spada nel 2009, Il cielo in me di Sabrina Bonaiti e e Marco Ongania nel 2014, mentre l’anno seguente è stata la volta di Antonia, un film per la regia di Ferdinando Cito Filomarino). Quanto potrebbe bastare, dunque, per rendere la scrittrice nota al grande pubblico, cosa che di fatto sta accadendo.
Anche Paolo Cognetti si è provato nel 2021 a raccontare Antonia Pozzi, in un interessante prosimetro formato da poesie, lettere e fotografie della giovane (che sì, oltre che finissima poetessa, fu anche appassionata fotografa). Cognetti condivide con la Pozzi il grande amore per la montagna: per lui si tratta soprattutto delle Alpi della Valle d’Aosta, per Antonia Pozzi furono le Dolomiti del Brenta, le Pale di San Martino, il Cervino e, soprattutto, la Grigna, il massiccio montuoso che i Milanesi chiamano Grignone. A partire da questa passione comune, Cognetti legge l’intreccio fra vita, poesia e montagna negli scritti della Pozzi che aveva l’abitudine, e la fortuna, di trascorrere i lunghi mesi estivi nella villa famigliare di Pasturo, in provincia di Lecco. 

Di cosa tratta?

Antonia Pozzi fu una buona camminatrice, di quelle che non temono le vette e le fatiche. Come abitudine della buona borghesia milanese dell’epoca, osserva Cognetti, Antonia era socia del CAI fin da bambina ed era stata educata alla montagna, esattamente come ad apprezzare la musica e a suonare il pianoforte. A ventun anni racconta in una sua lettera, come se fosse una banalità, di essere salita di notte da Pasturo alla Grigna, superando un dislivello di 1800 metri. Da sola. Per lei “la montagna è una palestra insuperabile per l’anima e per il corpo”. E chi in montagna ci va, sa che non si può che darle ragione.

Nel salire non si è che carne pieghevole e istinto felino aggrappati alla rupe pungente […] In vetta, quando ti vedi intorno un anfiteatro di guglie e di ghiaccio, o, da una cengia esilissima, guardi, sotto lo strapiombo […] la falda verde da cui balza il getto estatico di massi che hai conquistato, allora un’ebbrezza folle ti invade e l’adorazione selvaggia della tua fragilezza ardente che vince la materia.


La Grigna 

La tensione verso l’ascesa è il volano. In versi che tracimano dinamismo e vitalità, la Pozzi celebra la “forza irta e selvaggia” che rende le sue ginocchia “avide al balzo”, si ripropone di salire verso gli “altipiani/dove passano le nubi ad una ad una/ lente a fior della neve/come velieri su di un lago pallido”. Nei suoi versi le montagne rilucono nel loro splendido biancore, ora colte nella dimensione della loro natura scabra (“la roccia gonfia e rugosa”, il “prato crivellato di macigni”), ora in quella gioiosa e rasserenante. La giovane sembra desiderare di fondersi con quella natura imponente e selvaggia, quasi ad annullarsi con essa  (avrei voluto/ scattare,  in uno slancio,  a quella luce;  / e sdraiarmi nel sole […] /poi restare, a notte,/ stesa nel prato con le vene vuote: / le stelle – a lapidare imbestialite/ la mia carne disseccata, morta. ).
In una lettera a Tullio Gadenz, amico conosciuto a San Martino di Castrozza con cui condivideva l’amore per la poesia, la Pozzi scrive:

Io so che cosa vuol dire raccogliere negli occhi tutta l’anima e bere con quelli l’anima delle cose e le povere cose, torturate nel loro gigantesco silenzio, sentire mute sorelle al nostro dolore.


Ecco ciò che è la poesia per l’allora ventunenne Antonia: “bere” fino in fondo l’essenza delle cose, in un senso di doloroso affratellamento, in cui i versi trovano forma e voce per il “gigantesco silenzio” delle “mute sorelle”.
Dai suoi scritti appare evidente come il sentire, l’anima - come lei stessa scrive -  della montagna arrivi costantemente alla poetessa: i componimenti nascono quasi sempre dopo le lunghe estati sulle vette, quasi che la ragazza senta il bisogno di scrivere sull’onda dell’euforia estiva. Quanto accade a Milano, in università, le serate alla Scala, il Fascismo, nulla di ciò compare nei suoi versi.  
Il rapporto coi monti è intimo, un dialogo intenso che sfocia in quelle che Cognetti definisce vere e proprie “poesie di montagna”. Eccone un esempio:

Distacco dalle montagne

Questa è la prova
che voi mi benedite –
montagne-

se nell’ora del distacco
la vostra chiesa m’accoglie
con la sua bianchezza di sole
e abbraccia forte a mia
malinconia
col canto
delle campane di mezzogiorno –

 

Nella piccola piazza
una donna ridente
vende le prugne rosse e gialle
per la mia ardente
sete –

sul gradino di pietra
della fontana
luccica la lama
di una picozza –

l’acqua diaccia gela
il riso in bocca
a un fanciullo-
stampa lo stesso riso
sulla mia bocca –

Questa è la vostra
benedizione –
montagne. 

                Valtournanche, 30 luglio 1933
                Pasturo, 23 agosto 1933


Nelle sue lettere emerge anche la dimensione mondana, per così dire, della montagna, quella degli alberghi del bel mondo, del buon vitto: Antonia Pozzi era figlia di Roberto, affermato avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani. Nella sua vita non manca certamente la villeggiatura a Cervinia, all’Hotel des Jumeaux, ma la ragazza apprezza molto di più le lunghe marce fino ai ghiacciai, lo sci, i prati coperti di stelle alpine,  la “vita monastica” in cui ci si sveglia all’alba e ci si corica alle nove di sera. E solo questa lascia traccia nei suoi versi. 

        Dino Formaggio






















Le montagne sono i luoghi delle grandi amicizie, quelle con Lucia Bozzi, Alba Binda, ma anche dove immaginare un futuro d’amore. Paolo Cognetti lascia emergere dall'intreccio fra poesia e lettere la trama degli sfortunati amori della giovane, prima per il suo insegnante di liceo Antonio Maria Cervi, la relazione con il quale fu fortemente osteggiata dalla famiglia, poi per il suo compagno di università, Remo Cantoni, infine per Dino Formaggio. Amare significa per lei condividere anche la dimensione delle "sue"  montagne. Questo è uno dei testi scritti per Cantoni a Milano , nel dicembre 1934 quando, pur lontana dalle vette, la Pozzi dona all'amato se stessa e ciò che le appartiene nel profondo: la natura da lei vissuta nella sua profonda bellezza. 

Bellezza

Ti do me stessa, 
le mie notti insonni.
i lunghi sorsi
di cielo e stelle - bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote. 

Ti do me stessa.
il sole vergine dei miei mattini
su favolose rive 
tra superstiti colonne 
e ulivi e spighe. 

Ti do me stessa, 
i meriggi 
sul ciglio delle cascate,
i tramonti ai piedi delle statue, sulle colline 
fra tronchi di cipressi animati 
di nidi- 

E tu accogli la mia meraviglia
di creatura, 
il mio  tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido - della bellezza: 
e tu lascia ch'io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati, 
così densi di cielo - 
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette - 

                Milano, 4 dicembre 1934 



Così, invece, scrive qualche anno dopo, in una lettera del 21 luglio 1938, a Dino Formaggio,  immaginando la loro vita insieme a Pasturo:

Io a volte guardo, dal giardino, la finestra della stanza che – se un giorno mai ci sposassimo- diventerebbe la nostra, quando volessimo rintanarci qui. I letti sono i più comodi della casa; è quella di fronte alla sala da pranzo; vado sempre a farci il sonno; quando apro le imposte, il Bobi mette dentro il muso dal davanzale.

Nelle sue poesie traspare, però, fin dai primissimi versi, la dimensione tragica e malinconica della Pozzi, l’attrazione verso l’abisso o verso la quiete dei cimiteri campestri, in una sorta di tetro cupio dissolvi.

Vertigine

 

Afferrami alla vita,
uomo. La cengia è stretta.
E l’abisso è un risucchio spaventoso
che ci vuole assorbire.
Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
somiglia a un camposanto sconfinato,
con le sue pietre bianche.
Io mi vorrei tuffare a capofitto
nella fluidità vertiginosa;
vorrei piombare sopra un duro masso
e sradicarlo e stritolar, io,
con le mie mani scarne;
strappare gli vorrei, siccome a croce
di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
a golate gioiose il sangue mio.
[…]

I versi sono dedicati a una guida del Brenta di nome Oliviero Gasperi. Le guide, i maestri di sci divengono figure ispiratrici della sua poesia, Muse maschili. 
Nel 1937 nelle sue lettere alterna momenti di umore vario: passa dalla grande lucidità in cui dimostra una matura consapevolezza del fare poetico ("non credo ai miracoli, alle improvvisazioni letterarie: credo al lavoro, alla dura fatica di lima e di scalpello, alla lotta continua e sanguinosa, contro se stessi, contro i propri cancri giovanili, contro l'enfasi, contro l'involuzione, contro l'eccessivo lirismo") all’accenno a un angelo che misteriosamente la sera la visita e la conduce fino al cimitero del paese. Scrive "mi sento in un destino", come se fosse trasportata "da una corrente violenta, ad una tensione altissima". Nel 1937 invia a Dino Formaggio una foto con una sua didascalia, l’ha scattata la Cia, Lucia, la sua amica di sempre. Sullo sfondo è il Grand Tournalin: la foto è un dono all’innamorato, un ricordo di una vacanza felice, ma le parole sanno già di testamento: 

E’ l’immagine più cara che ho di me, dove sembro più un ragazzetto che una donna e ho addosso e intorno tutte le cose che più amo: i miei scarponi, il cappellaccio a fungo, la bella neve bianca, le pietre il legno; qui è l’essenza, il midollo, la fibra viva e contrattile della mia vita. E per questo deve essere tua: perché tu solo mi hai capita così. L’Antonia che si avvia per una piatta e dura strada cittadina, soffocandosi i canti nel cuore, stendendo veli neri sul volto delle montagne, ti lascia in eredità questo ricordo delle sue giornate più vere: tu lo seppellirai lievemente, lo cospargerai di terra soffice, e chissà – forse in un attimo improvviso, sereno, dopo una notte di temporale, un cantuccio tornerà ad affiorare nel tuo cuore. Allora, guardando una cima di montagna lontana, penserai a quello che è stata l’Antonia e ti sembrerà di volerle ancora bene. 


Antonia Pozzi ora lo sa: scrivere poesie è "superare il proprio piccolo io nella fatica sacra di creare parole che dicano l'amore, il dolore, la vita e la morte dei nostri fratelli uomini". 
L'ultima poesia è del 1938 dedicata a Emilio Comici, suo maestro di sci, conosciuto a Misurina nel 1936. Così scrive per lui, mentre forse, osserva Cognetti, pensa a Dino Formaggio (chissà..):

 

Per Emilio Comici

Si spalancano laghi di stupore
a sera nei tuoi occhi
fra lumi e suoni:
 
s’aprono lenti fiori di follia
sull’acqua dell’anima, a specchio
della gran cima coronata di nuvole…
 
Il tuo sangue che sogna le pietre
è nella stanza
un favoloso silenzio.
 
        Misurina, 7 agosto 1938

Nell'autunno del 1938 il silenzio, solo qualche lettera. Gli ultimi scritti risalgono al 2 dicembre di quell'anno quando, attendendo che i barbiturici che ha assunto facciano effetto, scrive qualche biglietto d'addio. Il padre di Antonia Pozzi distrusse dopo averlo letto il biglietto indirizzato ai genitori, salvo ricostruirlo a memoria tempo dopo. Dino Formaggio non rivelò mai cosa fosse scritto nelle righe a lui destinate.