Ricordi di un europeo. Il mondo di ieri, di Stefan Zweig


Come stupirsi che il secolo si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un gradino verso un decennio migliore? Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli  europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi.   

Nel 1941 in Europa imperversa la seconda guerra mondiale. In Brasile, a migliaia di chilometri di distanza, Stefan Zweig ha compreso che il conflitto che sta devastando il Vecchio Continente segnerà un punto di non ritorno. Le memorie della sua vita di austriaco, di europeo, di artista sono consegnate alle pagine de Il mondo di ieri, prima del suicidio dello scrittore, avvenuto nel febbraio del 1942.
Nel libro, la storia dell’uomo e dell’artista Stefan Zweig si intreccia con grande scioltezza con l’attenta ricostruzione degli avvenimenti della Storia europea dalla nascita dell’autore, avvenuta a Vienna nel 1881, fino al primo settembre del 1939, momento all’altezza del quale Zweig interrompe la narrazione. Il racconto mira a ricostruire l’atmosfera spirituale dell'Austria e, soprattutto dell'Europa, in un periodo di metamorfosi radicali, come Zweig stesso le definisce, in cui gli uomini sperimentarono, nel giro di una generazione, “la più spaventosa sconfitta della ragione e il più selvaggio trionfo della brutalità”.
L’ispirazione che sta alla base del racconto non è altro che la constatazione della fine di un’epoca, “l’età d’oro della sicurezza”, in cui era stato possibile conoscere “il grado e la forma più alta della libertà individuale”, sospesa con la folle esperienza della prima guerra mondiale e definitivamente conclusa con l’inizio della seconda.
L’età d’oro della sicurezza era stata, a parere di Zweig, l’età d’oro dell’Europa, in cui, a dispetto dei nazionalismi che progressivamente si affermavano, era possibile godere di una cultura europea e sentirsi, non semplicemente cittadino del proprio paese, ma anche europei.
Dell’Europa nel passaggio fra l’Ottocento e gli inizi del Novecento, Zweig offre un quadro splendido, arricchito dai mille aneddoti che derivano dalla sua esperienza in quanto, come acutamente osserva, l’atmosfera spirituale di un’epoca si manifesta, più che negli avvenimenti ufficiali, nei piccoli episodi personali.

“L’Europa di un tempo si compiaceva serena del suo multicolore caleidoscopio”, scrive Zweig. La città simbolo di questo caleidoscopio è, ai suoi, occhi, Parigi, città “miracolo d’armonia” in cui il giovane scrittore si recò a vivere una volta conclusi gli studi universitari.
 
In nessun luogo come a Parigi si poteva sentire con più intensa felicità la spensieratezza ingenua e insieme mirabilmente saggia della vita, giacché a Parigi essa era grandiosamente riaffermata dalla bellezza delle forme, dalla mitezza del clima, dalla ricchezza e dalla tradizione. […] cinesi e scandinavi, spagnoli e greci, brasiliani e canadesi, tutti sulla Senna si sentivano a casa propria. Non v’erano costrizioni, si poteva parlare, pensare, ridere, inveire come si voleva; ognuno viveva a suo capriccio, in compagnia o solo, prodigo o economo, in gran lusso o da bohémien; v’era posto per ogni bizzarria ed erano previste tutte le possibilità
 
Dopo Parigi, Londra, il centro di una nazione che “da secoli faceva procedere il mondo sulle sue rotaie”. Città più difficile da vivere rispetto a Parigi, come emerge dalla parole di Zweig: Londra espelle “energicamente come un corpo estraneo l’ozioso, il mero osservatore” e qui Zweig, come candidamente ammette, non riesce a intessere rapporti significativi con nessuno perché “con la mia indifferenza per lo sport, il gioco, la politica e per quanto tutto li [gli Inglesi] interessava, dovetti apparire un personaggio goffo e noioso”.
Dopo Londra, l’Italia, poi la Spagna, il Belgio.
Ogni nazione europea è associata, a un incontro, a una persona, a un’amicizia, giacché “ non si può conoscere un popolo o una città nella sua ultima essenza più riposta attraverso i suoi libri e neppure con la visita più accurata, ma soltanto sempre per il tramite dei suoi uomini migliori”. Zweig ha un anedotto da raccontare su molti degli artisti e intellettuali del primo Novecento: Léon Bazalgette,  Émile Verhaeren, Rainer Maria Rilke, Aguste Rodin,  W. B. Yeats, e tanti altri.
Nel cuore dell’Europa, però, si trova l’amatissima Austria, ultimo avamposto fin dall'antichità di una cultura dai caratteri  suoi peculiari: Vienna era stata costruita dai Romani come castrum e aveva costituito a lungo il confine dell’unificato imperium romano contro i barbari, era stata anche il baluardo contro cui si era infranto l’assalto ottomano. L’impero asburgico aveva contribuito a fondere “armonicamente” elementi etnicamente a culturalmente tedeschi, slavi, ungheresi, spagnoli, italiani, francese, fiamminghi. 
Vienna era una città “assimilatrice e dotata di una particolare sensibilità”, in grado di pacificare e ammorbidire in un’atmosfera di tolleranza ogni cittadino che “senza averne coscienza veniva educato ad essere supernazionale e cosmopolita”. Non solo, Vienna era la città europea in cui più viva era l’appassionata aspirazione alla cultura, dove “era impensabile un viennese della buona società che non avesse senso d’arte e compiacenza estetica, […] non si poteva essere un autentico viennese senza tale amore per la cultura, senza tale comprensione critica e insieme gaudente per le più sacre superfluità della vita”.
 E’ da questo osservatorio privilegiato della felix Austria che Zweig racconta lo scoppio della prima guerra mondiale e tutto ciò che seguì nei decenni successivi:  povertà, inflazione, perdita delle libertà civili, odio.


Tutto accade quasi inconsapevolmente, mentre ciascuno è occupato a vivere la propria vita, senza rendersi conto che, un fatto banale dopo l’altro, ci si avvia incontro alla Storia.

Il giorno dell’attentato di Sarajevo, Zweig si trova a Baden, una cittadina presso Vienna. Una giornata comune, come tante altre, nel pieno dello splendore di giugno: Zweig siede tranquillo in un parco, leggendo, attorno a lui grandi e piccini intenti a godersi la giornata estiva. Tutto ad un tratto l’orchestrina che suona interrompe la musica nel mezzo di una battuta, la folla si accalca attorno a un manifesto: l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e sua moglie sono stati assassinati. Un paio di ore di sconcerto, nulla più, e alla sera tutto è già dimenticato, la gente riempie di nuovo le strade, ridendo e chiacchierando fino a tarda sera. “L’estate era più bella che mai, noi tutti guardavamo il mondo senza preoccupazione”.
Zweig dedica lunghe pagine del suo libro a cercare di capire come sia stato possibile che una società così prospera, progredita, civile, sicura, sia precipitata verso un abisso sempre più profondo. Non è tanto interessato alle cause politiche o ai giochi di potere. Afferma che la prima guerra mondiale era “guizzata fuori dalle mani maldestre dei diplomatici contro le loro stesse intenzioni” , senza che né i popoli né i governi coinvolti l’avessero realmente voluta. Constata tristemente che le masse aderirono entusiaste alla chiamata alle armi per fiducia nelle autorità (“nessuno in Austria avrebbe osato pensare che il veneratissimo padre della patria Francesco Giuseppe potesse chiamare i suoi popoli alle armi senza assoluta necessità”), ma anche perché ingannate da una illusoria e romantica idea della guerra come “avventura eroica e virile”.
Ma il primo conflitto mondiale agli occhi di Zweig non è che  l’inizio dell’imbarbarimento morale che segnerà la fine dell’Europa. Quali, dunque, le cause?
Innanzitutto l’ottimismo eccessivo, unito a, anzi alimentato da una fede irrazionale nel progresso, quasi che il progresso scientifico fosse necessariamente destinato a portare con sé un miglioramento morale.  
L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via diritta e infallibile verso "il migliore dei mondi possibili". Guardava con dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come se fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un "progresso" ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una religione, si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della scienza e della tecnica.
 
Ma accanto a ciò, Zweig scorge un altro elemento alla base delle tragedie degli anni a venire: una sorta di freudiano “disgusto della civiltà”, come se il dinamismo interiore accumulatosi nei decenni nella floridissima Europa necessitasse di esplodere in uno sfogo violento.
I difficili anni del primo dopoguerra sono sempre raccontati dal punto di osservazione dell’Austria. Zweig si trova nella sua casa di Salisburgo: a causa dell’inflazione galoppante, in Austria un uovo costa quanto in passato un’automobile di lusso, in Germania quanto “il valore catastale di tutte le case di Berlino”, il pane nero, la gente che dà la caccia agli scoiattoli per riuscire a mangiare carne. Eppure, “la volontà di vita si dimostrò più forte che la labilità del denaro”, tanto che nel decennio dal 1923 al 1933, dalla fine dell’inflazione alla presa del potere da parte di Hitler, si poté anche sperare che la vita fosse ripresa come prima.
L’ascesa di Hitler avviene in sordina, senza che nessuno presti seriamente attenzione alla sua crescente autorità. Ammette serenamente Zweig: “per una legge ineluttabile della storia è negato proprio ai contemporanei di riconoscere sin dai primi inizi i grandi movimenti che determinano l’epoca loro; così io non riesco a rammentare quando abbia udito per la prima volta il nome di Adolfo Hitler.” Molti lo ritenevano un “sobillatore da birrerie”, tutt’al più un “luogotenente provvisorio” di un regime episodico. Altri ripetono la formula consolatrice: ”non può durare a lungo”.
Ancora una volta, inconsapevolmente, ci si avvia verso la Storia. La brutalità si palesa nella sua evidenza il 13 marzo del  1938, il giorno dell’annessione dell’Austria alla Germania. Ancora una volta, Zweig comprende che l’attacco all’Austria costituisce un attacco al cuore dell’Europa, da cui non può che derivare una destabilizzazione dell’intero continente:

Il povero paese mutilato e dilaniato, mentre i suoi sovrani avevano un giorno dominato l’Europa, fu proprio, lo debbo ripetere, la pietra angolare. Per me era chiaro ciò che tutti i milioni di cittadini londinesi ignoravano, che insieme all’Austria avrebbe dovuto cadere la Cecoslovacchia, e che i Balcani sarebbero divenuti aperta preda di Hitler, che il nazionalsocialismo prendendo Vienna, in grazia della sua particolare struttura, avrebbe avuto in mano la leva con cui sollevare dai cardini l’Europa intera.

Da qui Zweig, ebreo, inizia la difficile vita dell’esule. L’illusione di un accordo di pace a Monaco nell’estate del 1939 si spegne nel giro di una settimana e, a grandi passi, l’Europa si avvia verso la seconda guerra mondiale. La notizia dell’attacco alla Polonia coglie Zweig mentre si trova a Bath, a sbrigare le pratiche necessarie per il suo secondo matrimonio. L’impiegato dell’ufficio comunale, confuso e turbato, interrompe il lavoro, non sapendo se può portare a termine la pratica di Zweig e della fidanzata  che, a seguito di ciò, sono di fatto divenuti dei nemici.
La narrazione si interrompe a questo punto perché qui appunto finisce il mondo che Zweig aveva conosciuto, amato e descritto. Lo scrittore, pur nell'immensa tragedia, si rende conto che la fine di un'epoca significherà, col tempo, l'inizio di una nuova, ma non troverà la forza di attraversare i "purgatori e gli inferni" che necessariamente bisognerà incontrare per giungere fino ad essa, scegliendo dunque la via del suicidio. Solo nella speranza che possa riprendere il corso del progresso umano, anche se a tratti interrotto e sospeso, diviene pensabile la prospettiva di una futura rigenerazione morale. 

Non riesco a rinnegare totalmente la fede della mia giovinezza: che un giorno, cioè, malgrado tutto, la grande ascesa debba riprendere. Anche dagli abissi dell’orrore nel quale oggi ci moviamo […], io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verse le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo dell’eterno progredire.