Chi è davvero felice?



Esiste una via per la felicità? Cosa ci rende realmente felici: il possesso di tutto ciò che desideriamo? uno stato di piena soddisfazione interiore?  O forse la felicità, più che essere intesa per quello che è andrebbe definita per ciò che non  è  come assenza di dolore e di preoccupazioni?
E ancora, quanto la felicità dipende dalle circostanze esterne, dagli avvenimenti positivi  o negativi che ci accadono, quanto piuttosto dal nostro modo di reagire di fronte ad essi? La questione è vecchia come il mondo e, infatti, innumerevoli sono le risposte che sono state trovate nel tempo: parziali,  provvisorie, contraddittorie, soggettive ma possiamo dire che il “problema” della felicità ha sempre interrogato gli uomini e – chissà – forse ha complicato loro ulteriormente la vita. Una delle risposte più antiche è narrata dallo storico greco Erodoto e, più o meno, risulta essere questa.


Creso è il re della Lidia ed è ricchissimo, anzi è il ricco per antonomasia. Anche oggi, si dice ricco come un Creso, quando una persona è veramente ricca.
Solone è un uomo saggio o almeno i più lo reputano così. Viene da Atene, la sua patria, dove ha cercato di dare delle leggi giuste ai suoi concittadini, o meglio, forse non giuste, ma, come lui stesso ha detto, “le migliori che gli Ateniesi potessero accettare”. Ha cercato di portare la concordia nella sua città, di appianare le lotte fra le diverse fazioni, di dare speranza anche ai più poveri. E poi ha lasciato Atene per un viaggio, un esilio volontario secondo alcuni, forse per curiosità di conoscere il mondo, forse per evitare che qualcuno lo costringesse a disfare quanto aveva fatto.
Siamo nel VII secolo a.C., poche persone viaggiano per piacere o per curiosità: viaggiare è pericoloso, comporta disagi e incertezze, gli spostamenti richiedono settimane, mesi, anche anni. Eppure Solone è uno dei pochi che lo fa: è stato in Egitto, poi a Cipro.
Ora si trova a Sardi, la splendida capitale della Lidia che sorge alla confluenza del fiume Pattolo, in cui si dice che scorra oro.
Solone è ospite nella reggia di Creso che gli ha mostrato, ostentato con compiacimento, tutti i propri tesori e tutte le proprie ricchezze. Creso ci tiene a impressionare l’ospite ateniese, ci tiene ad ottenere da lui plauso ed encomi, così come ci tengono tutti i potenti. E ora Creso rivolge una domanda a Solone, ma è una di quelle domande di cui sa già la risposta, o così crede. In fin dei conti, Creso non vuole sapere realmente cosa pensa il saggio ateniese, vuole solo che egli confermi le sue convinzioni. Ed ecco così chiede:

-          Ospite ateniese, tu che sei tanto saggio, tu che hai tanto viaggiato e hai visto tanta parte del mondo, tu che conosci gli uomini e i loro cuori, dimmi: conosci qualcuno che possa essere detto il più felice di tutti?

Solone non si lascia scomporre a queste parole. Egli è un uomo libero, un ateniese, viene da una terra dove la gente non accetta di servire un potente e riconosce al di sopra di sé le leggi e gli dei, ma nessun altro uomo. A Solone non interessa adulare Creso, quindi risponde:

-          Sì, ho conosciuto qualcuno che possa essere detto il più felice di tutti. Si chiamava Tello, era ateniese, come me.

Un perfetto sconosciuto. Creso è interdetto: cosa può avere un perfetto sconosciuto che lui, Creso, non ha? Come è possibile che un perfetto sconosciuto sia l’uomo più felice di tutti, uno che non possiede le strabilianti ricchezze del re di Sardi? Allora Creso chiede:

-          Perché giudichi questo Tello l’uomo più felice di tutti?

E Solone:

-          Tello ha avuto la vita più piena che un uomo possa avere: è vissuto in uno dei periodi più splendidi della nostra città, ha avuto molti figli e nipoti, tutti sani e intelligenti e tutti gli sono sopravvissuti. E ha avuto una morte splendida: è morto in battaglia, combattendo per la sua patria, aiutando i suoi concittadini a riportare la vittoria sui nemici. Gli Ateniesi hanno onorato il suo valore e l’hanno seppellito con un funerale di stato.

Creso non comprende le parole di Solone, ma non si dà per vinto, è troppo sicuro di essere il più felice tra gli uomini e allora continua:

-          Oltre a Tello ateniese, hai conosciuto qualcun altro perfettamente felice?

Solone riflette. Sì, ha un’altra storia di perfetta felicità da raccontare:

-          Due fratelli di Argo, Cleobi e Bitone. Trascorsero una vita senza privazioni e furono entrambi belli e forti, ammirati da tutti per la loro prestanza fisica, vincitori di gare atletiche. Erano l’orgoglio della madre che chiese per loro alla dea Era la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. E gli dei l’accontentarono. Un giorno di festa i due giovani si distinsero in mezzo alla folla per aver trainato un carro per quarantacinque stadi. Acclamati e festeggiati da uomini e donne, banchettarono e si addormentarono felici nel tempio. E non si svegliarono più. Non conobbero il dolore, la malattia, la vecchiaia, neppure la paura della morte e di loro resta la memoria di due giovani belli e forti, eternamente così. Creso, nessuno può dirsi felice fino alla fine. Troppi sono gli avvenimenti che capitano nella vita di un uomo, troppo variabile è la sorte e nessuno sa cosa accadrà domani. Coloro che non hanno malattie, che non subiscono disgrazie, sono fortunati, indipendentemente dal fatto che siano ricchi o meno. Anche un uomo ricco è fortunato, ma anche le sue ricchezze, come tutto, sono dominio della mutevolezza della sorte. E non esistono uomini che abbiano in sé tutte le fortune possibili per un uomo. Come si può, dunque, definire qualcuno felice se nulla si sa di quello che gli accadrà? Solo chi conserverà la sua fortuna fino alla fine, concludendo la sua vita dolcemente, solo costui potrà essere detto perfettamente felice. La felicità è al di fuori della nostra volontà, semplicemente, è qualcosa che accade.

Creso non è soddisfatto:

-          Solone, tu sei uno dei più grandi saggi, eppure, mettendo in discussione ogni cosa, non vedi il valore di quello che ciascuno ha, fintanto che lo ha.


Arrabbiato, Creso congeda Solone. Non lo rivedrà mai più.
Come tutti gli uomini, Creso non sa cosa lo aspetta: è ricco, potente e pensa che nessun male possa toccarlo, non come capita agli altri uomini. Ma molte cose impreviste stanno per accadere.
Creso ha due figli, ma solo uno dei due, Atis, è il pupillo del padre perché primeggia fra tutti i suoi coetanei. Una notte, però, Creso fa un sogno terribile: suo figlio viene ucciso da un’arma di ferro appuntita e muore. 
Turbato, Creso non sa se dare retta a un sogno o non pensarci più. Forse ha un brutto presentimento e ordina di nascondere ogni arma presente nel palazzo e impedisce al figlio di partecipare a qualsiasi guerra.
La sorte dell’uomo, però, è imprevedibile e accadono due avvenimenti che sconvolgeranno la vita di Creso.
La prima.  A Sardi giunge un uomo dalla Frigia, un tale Adrasto. Si presenta a Creso come un supplice perché non ha più nulla. Riferisce di aver commesso un orrendo delitto: ha ucciso senza volerlo suo fratello e per questo è stato scacciato dalla sua famiglia e dalla sua patria e chiede protezione e ospitalità, che Creso gli concede.
La seconda. In una zona non lontana da Sardi, la Misia, un enorme cinghiale sta devastando i campi della popolazione, senza che nessuno riesca a fermarlo. Atis vuole andare ad aiutare, lui e altri giovani prenderanno le armi e libereranno i boschi della Misia da questo pericoloso animale. Creso non è d’accordo, non ha dimenticato il sogno, ma il figlio insiste: sa di essere abile nella caccia, è animoso, pieno di voglia di fare e di distinguersi. Inoltre, aggiunge Atis, un cinghiale non ha le mani: quale arma mai potrà usare contro di lui? Alla fine Creso cede e fa chiamare Adrasto:

-          Tu hai ricevuto tanti benefici da me, ma ora è tempo che sia tu ad aiutarmi. Vai in Misia con mio figlio, stagli accanto, proteggilo da ogni pericolo.


Ma la sorte dell’uomo è imprevedibile. Nei boschi della Misia Atis e i suoi compagni vedono il cinghiale e lo inseguono, gli sono addosso, oramai l’animale è circondato e sta per essere preso. Ma uno dei giavellotti scagliati colpisce proprio Atis che muore, così come Creso aveva sognato. Adrasto, lacerato dalla disperazione, si uccide sulla tomba di Atis.
Passano due anni. Creso ha osservato un lutto strettissimo per la morte del figlio. Il dolore non cessa, ma è sazio di pianto ed è un re e ha un popolo da governare. Ai confini della Lidia un grande impero cresce sempre di più e diviene sempre più potente, quello dei Persiani, guidati da Ciro, figlio di Cambise.
Creso è preoccupato e non vuole aspettare di essere attaccato, ma muovere guerra per primo, prendendo il nemico di sorpresa. Invia dei messaggeri a consultare l’oracolo di Apollo e il responso dell’oracolo appare chiarissimo: se Creso muoverà guerra ai Persiani, rovescerà un grande regno.
Si organizzano dunque i preparativi, si procurano degli alleati. Inizia l’invasione: la prima terra contro cui muove l’esercito di Creso è la Cappadocia ove si scontra con Ciro in una terribile battaglia in cui nessuno esce vincitore. Da lì Ciro in breve tempo muove verso Sardi che, nel giro di quattordici giorni, viene espugnata. Creso viene fatto prigioniero: così come aveva predetto l’oracolo, ha distrutto un grande regno, il proprio.
Condannato a morte, Ciro riserva al nemico un supplizio crudele: sarà arso vivo insieme ad altri quattordici giovani lidi. Creso sale sulla pira in catene sotto gli occhi del vincitore, una grandissima umiliazione per lui che un giorno era stato un potentissimo re. Forse proprio per questo gli torna in mente la conversazione con Solone in quel giorno lontano in cui non aveva conosciuto ancora tante sofferenze e poteva credere di essere il più felice degli uomini. Sospira e piange e per tre volte pronuncia il nome di Solone.
Ciro sta osservando la scena. Dentro di sé prova l’ebrezza di chi pensa di essere onnipotente, di chi sa di avere in mano le sorti degli uomini. Ma non gli sfuggono quelle parole di Creso, che non capisce.
Immaginiamo la scena, in tutta la sua drammaticità e bizzarria: Solone e gli altri giovani lidi sono sulla pira, il fuoco sta già ardendo, ma non li ha ancora raggiunti. Ciro e i suoi uomini assistono compiaciuti. Non capiscono però le confuse grida e le parole dei suppliziati, un po’ per il frastuono, un po’ perché parlano lingue diverse. Allora intervengono gli interpreti che, per volontà di Ciro, interrogano Creso e lo invitano a spiegare il suo accenno a Solone e Creso racconta tutta la storia, il suo incontro, la risposta di Solone, la sua reazione stizzita. Tutto questo mentre le fiamme divampano sempre più violente.
Ciro ascolta il racconto per bocca degli interpreti e dà ordine di spegnere immediatamente il fuoco. Non è un’impresa facile, oramai il fuoco è alto, ma per fortuna scoppia un forte temporale, forse l’ha mandato un dio, e l’incendio si spegne. Creso è salvo, Ciro lo fa sedere accanto a sé, come suo pari.

“Creso”, gli dice, “la tua sorte mi ha colpito: io ho avuto la superbia di mandarti a morte, ma tu sei un essere umano come me. Anche tu un giorno sei stato potente, decidevi della vita e della morte di altri ed eri orgoglioso della tua condizione. Ora, sconfitto, senza più nessun avere, sei mio prigioniero e hai rischiato la vita per mio volere. Un giorno forse questo potrebbe accadere a me perché la sorte degli uomini è volubile. Davvero nessuno può definirsi felice, non sapendo quale sorte lo attende”. 

(libero adattamento da Erodoto, Storie, I